Siamo agli inizi di marzo e a Sud delle Alpi le piante stanno per risvegliarsi. Anche per le viti è importante che la potatura invernale avvenga prima della ripresa dell’attività vegetativa. Così un proverbio della tradizione popolare avverte apoditticamente: chi fino a marzo non pota la sua vigna, perde la vendemmia.
Ben più grave dell’omissione della potatura sono però i flagelli dell’oidio della vite, una malattia delle piante causata dall’omonimo fungo che dilagò in Europa a partire dalla metà dell’Ottocento e che ben presto minacciò la distruzione delle viti europee, e la peronospora, il microrganismo che fu tra le cause della grande carestia irlandese tra il 1845 e il 1849 che non infetta soltanto la patata ma anche la vite.
Ma a partire dal 1879, con la sua drammatica comparsa presso Como, fu un altro terrificante flagello che gradatamente minacciò d’estinzione i vitigni del Norditalia e di tutta l’Europa: la fillossera della vite.
Il minuscolo insetto, originario dalle Montagne Rocciose del Nordamerica, è un fitofago che curiosamente delle viti europee attacca le radici, mentre di quelle americane attacca il cosiddetto apparato aereo. Per vincere dunque lo spietatissimo parassita si ricorse all’ingegnoso e felice stratagemma dell’innesto delle viti autoctone su ceppi di viti provenienti, come la fillossera, dall’America settentrionale e le cui radici erano immuni a questa rovina.
Anche in Valtellina, agli inizi del Novecento, la fillossera costrinse i viticoltori nel corso di una generazione a un completo reimpianto dei loro vitigni. A differenza delle antiche varietà locali, questi nuovi vitigni su piede americano resistente andavano piantati a una profondità maggiore. Fu così che sui colli impervi ma ben soleggiati del versante retico valtellinese furono scavati migliaia di buchi che portarono alla luce un’infinità di massi, sassi e pietre. Tra questi v’erano anche delle lastre che grazie alla loro configurazione vennero utilizzate per degli scalini o dei muretti a secco delle caratteristiche terrazze valtellinesi. Nel febbraio del 1940, durante dei lavori agricoli nelle vigne della località di Caven a Teglio, dei mezzadri rinvennero delle steli sulle quali notarono delle incisioni. Come ben si sa, la Valtellina è prossima della Valcamonica che con oltre 200’000 incisioni è uno dei massimi siti mondiali dell’arte rupestre. Non deve dunque stupirci se in Valtellina tra le tante pietre che la fillossera costrinse a estrarre, ve ne furono alcune d’eccezionale valore archeologico come le tre steli di Caven a Teglio, tra le quali primeggia quel capolavoro preistorico dell’armoniosa stele antropomorfa della cosiddetta «Dea madre». Sembra proprio che i flagelli di Bacco promossero lo studio dell’archeologia in Valtellina.
[Prima emissione Radiotelevisione Svizzera RSI, Rete Due, 4 marzo 2014, ore 7:05]